IL CORPO SPECIALE D'AFRICA 1896.

E' il 29 dicembre 1895 quando, a bordo della nave "Gottardo", gli alpini del I Battaglione Alpini d'Africa (facenti parte del Corpo Speciale d'Africa) sbarcano sul suolo africano.
Sono al comando del tenente colonnello Davide Menini, su quattro compagnie:
la 1° compagnia, capitano Giovanni Trossarelli, con uomini del 1° reggimento alpini;
la 2° compagnia, capitano Ernesto Mestrallet, con uomini del 2° reggimento;
la 3° compagnia al comando del capitano Lorenzo Blanchin, con truppe del 4° reggimento;
la 4° compagnia, capitano Pietro Cella, con truppe del 5° 6° e 7° reggimento alpini.
In totale, 20 ufficiali e 954 tra sottufficiali, graduati e soldati di truppa.
Vengono subito inquadrati del 1° reggimento della brigata Arimondi; è il 7 gennaio 1896. Per tutto il mese di febbraio gli eserciti manovrano senza affrontarsi a una trentina di chilometri di distanza.
Menelik, Negus di Abissinia, con 120.000 uomini, aspettava che gli italiani facessero un passo falso, e poi aveva paura della nostra artiglieria. Intanto, però, si avvicinava ad Adua.
Il generale Baratieri lo pedinava con i suoi 15.000 uomini, che una lunghissima serie di carovane riforniva dalla base di Massaua. Gli abissini vivono invece di quel che trovano nel paese.
Baratieri sta concentrando le sue truppe ad Adigrat, per sorprendere sul fianco gli abissini di Adua, se tentassero di attaccare l'Eritrea: da Adigrat si sposta lentamente nel'Entisciò e poi nella conca di Suarià.
Tutte queste piccole azioni e scaramucce non piacciono al governo italiano. Un telegramma di Crispi recita così: "Codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce nelle quali ci troviamo inferiori di numero dinnanzi al nemico; sciupio di eroismi senza successo". Poi giunge da Roma un'indiscrezione: Crispi, irritato dai rinvii di Baratieri e sotto le pressioni della corte, avrebbe deciso di rimettere al suo posto il generale Baldissera. A questo punto Baratieri, con i nervi a pezzi, minato dalla febbre, insonne, senza nutrimento, come ricorda il capitano Bassi, un ufficiale che faceva parte del corpo di spedizione, decide di agire.
Ordina una puntata offensiva in direzione del campo abissino presso Adua. L'intenzione, anche se non annunciata, è quella di sorprendere il nemico. Le truppe partono da Suarià alle nove della sera del 29 febbraio 1896, sotto un cielo senza luna ma abbastanza luminoso. Il corpo di spedizione italiano avanza a tridente, su tre colonne.
A sinistra, il generale Albertone con 4.000 uomini, in prevalenza indigeni, una batteria di artiglieria indigena e due batterie italiane.
All'estrema destra, la colonna del generale Da Bormida, con altri 4.000 uomini, due reggimenti di fanteria, tre batterie italiane, un battaglione di ascari.
Al centro, leggermente arretrata, una colonna più forte, con due brigate, una al comando del generale Arimondi, l'altra del generale Ellena:la prima con un reggimento di fanteria, uno di bersaglieri, due batterie italiane e una compagnia di ascari, 3.000 uomini in tutto. La brigata Ellena contava invece, 4.200 uomini, quasi tutti italiani: 5 battaglioni di fanteria, il battaglione alpini d'Africa, che nel mentre ha cambiato brigata, un battaglione indigeni e due batterie da campagna a "tiro rapido".
I reparti, in generale, erano di formazione, con quadri e gregari provenienti da diversi corpi, e non avevano avuto nè il tempo nè il modo di affiatarsi. Quasi tutti inesperti delle caratteristiche dell'ambiente naturale e dei procedimenti tattici propri della guerra coloniale.
Già alle 3.30 del mattino seguente, 1° marzo, sei ore dopo la partenza, il sistema di collegamenti entra in crisi. Arimondi si ferma per lasciar sfilare la brigata Albertone che gli ha tagliato la strada, ed ha perso il contatto con l'ala destra di Da Bormida. Albertone, seperato Arimondi, dovrebbe raggiungere il colle Chidanè Meret e attestarvisi. Invece prosegue, per ben otto chilometri. Un errore cartografico o il tentativo di sorprendere da solo il nemico per sconfiggerlo? Mancò poco che la sorpresa al campo di Menelik riuscisse davvero: alle cinque del mattino, secondo il cronista etiopico Sellasè, l'esercito italiano aveva sorpreso i fucilieri di ras Mangascià e alcuni volontari indigeni, fatti prigionieri, avevano raccontato che quattro generali italiani stavano venendo all'attacco di sorpresa. Menelik fa dare l'allarme. Così Albertone arriva addosso all'imperatore, e la sua brigata viene accerchiata. Gli abissini vengono falciati dal tiro dell'artiglieria, e gli ascari contrattaccano. Menelik sembra impressionato, e sta per ordinare la ritirata, quando appare la regina Taitù, sotto il suo ombrello nero, che si scosta il velo dal volto e apostrofa i soldati vacillanti. Ras Mangascià, a sua volta, esorta Menelik a far intervenire la guardia imperiale, forte di 25.000 uomini. Alle 7.30 del mattino Albertone chiede aiuto a Baratieri, e questi ordina a Da Bormida di piegare sulla sinistra per trovare il contatto, con una manovra avvolgente. Ma Da Bormida è in un'altra valle, duramente impegnato da ras Michael, da ras Mangascià e anche dalla cavalleria Galla.
Alle 11.00 la brigata Albertone non esiste più: il generale è prigioniero, le batterie "siciliane", 3° e 4° da montagna, sparano a zero a mitraglia fino a farsi macellare, per consentire a pochi uomini di ripiegare: il loro comandante, maggiore Francesco De Rosa, e il capitano Edoardo Bianchini e Umberto Masotto furono decorati alla memoria della medaglia d'oro, mentre il maggiore Alberto Zola, comandante della II brigata di artiglieria da montagna, ebbe la Croce dell'Ordine Militare di Savoia.
Da Bormida resiste fino alle 15.00, accerchiato, poi ordina la ritirata e non lo si rivede più: nemmeno il suo corpo fu ritrovato. Cinquemila abissini travolsero le truppe in ripiegamento.
Baratieri, al centro, ordina il ripiegamento: scompare Arimondi, già ferito, sotto un mare di abissini; gli ascari di Galliano fondono, e Galliano stesso sparisce nella mischia. La brigata Ellena viene impiegata a pezzi e a bocconi: la 3° e la 4° compagnia alpine vengono schierate sul Monte Raio, a protezione del fianco scoperto della brigata Arimondi: sono agli ordini del capitano Cella, resistono per un'ora fra le 11 e mezzogiorno, e si fanno massacrare. Il capitano Cella, caduto, sarà la prima medaglia d'oro degli alpini. Quelli della brigata Arimondi che si salvarono debbono la vita agli alpini che si sono fatti uccidere sul posto. La 2° compagnia alpini, del capitano Mestrallet, contrattacca col XV battaglione di fanteria, poi deve ripiegare, dopo perdite gravissime. La 1° compagnia del capitano Trossarelli, insieme con il XVI battaglione di fanteria, viene inviata sul rovescio del Monte Raio in appoggio alla Brigata Arimondi. Troppo poco e troppo tardi: con loro era il colonnello Menini, che cadrà nella mischia gridando:"Avanti, alpini, con me!". Gli alpini della 1° compagnia parteciparono alla difesa della colonna in ripiegamento attorno a Baratieri, contrattaccando la cavalleria Galla, che aveva ormai campo libero.
Il battaglione alpini ebbe nove ufficiali morti su venti e oltre 400 alpini uccisi, pari al 75 per cento degli effettivi impiegati (550 uomini).
Il governo Italiano mandò il generale Baldissera con due divisioni, che doveva sostituire Baratieri, dopo la battaglia. Fra questi rinforzi c'era un reggimento alpini di formazione al comando del colonnello Ettore Troia, su 4 battaglioni e quattro batterie da montagna. Gli alpini sbloccarono il forte di Adigrat assediato, poi, cessate le ostilità perchè gli abissini si erano ritirati, furono rimpatriati. Ma torneranno presto in Africa, stavolta in Libia....
Ed ora alcune foto di uno splendido casco coloniale ottocentesco del Corpo Speciale Alpini d'Africa.





Di seguito altre foto di un kepì da tenente del 1° Reggimento Artiglieria e un berretto da truppa del 7° Reggimento Artiglieria. Entrambi questi splendidi cimeli originali rappresentano i copricapo che equipaggiavano le batterie "siciliane" dell'Artiglieria da Montagna, impiegate durante la battaglia di Adua nel 1896.








